"Dopo lo shampoo, il balsamo". No, non è l'ennesima rilettura della celebre citazione ("Dopo di noi, il diluvio") di Madame di Pompadour; è, bensì, la prassi ormai consolidata dei miei lavaggi di capo, quelli non metaforici. E il balsamo non è neppure un balsamo qualsiasi, se quanto scritto sull'etichetta è tale da interrompere la mia "Locomotiva" (questa sì una rilettura, con erre moscia gucciniana integrata). Una scritta, a belle lettere verdi, campeggia sul davanti: "98% biodegradabile". Lì per lì mi limito solamente a tirare ad indovinare quale diabolica amalgama contenga il restante 2%. Poi vado un pochino oltre (mentre ormai la "Locomotiva" ha perso definitivamente le speranze di correre ancora).
Aldilà della storiella, di prodotti bio&co per casa mia ne imperversano parecchi, ed è difficile non osservare come, in definitiva, non siano altro che l'ennesima trovata di mercato. Solo che fino a poco tempo fa - consuetudine ancor oggi, ovviamente, in gran parte in voga - il marketing puntava sull'istintualità e sugli aspetti ferino-libidinosi in generale dell'uomo, facendogli credere che tramite l'acquisto, questi trovassero pieno appagamento; bio&co, invece, agiscono sulla coscienza dell'individuo, aprendo ad ampi interrogativi.
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Quando l'individuo, infatti, è pienamente consapevole che un prodotto biologico, almeno sulla carta, non danneggi, oltre che se stesso, l'ambiente - o che lo faccia comunque in misura minore di altri prodotti -, allora il problema di base (di quello a monte parlerò più avanti) non si pone. O meglio, si pone solo dal punto di vista etico, poiché il produttore lucra sul bene di tutti: ma questa è altra storia. I problemi cominciano a verificarsi quando l'acquisto di un prodotto biologico ingenera nella coscienza dell'individuo un effetto placebo del tutto nocivo: guai a
percepire (lo uso al posto di 'pensare', perché mi pare più consono al concetto di 'coscienza') che, comprato un balsamo eco-compatibile in luogo di uno più inquinante, ci si possa sentire in pace ed armonia con l'universo; ma guai anche a percepire che l'individuo sia dotato di super-poteri.
Il problema più grosso, infatti, subentra assieme al concetto di "proprio piccolo", che lascia l'individuo solo in balia di se stesso, nascondendogli la nuda verità. La questione non si pone a livello privato, perché comprare prodotti eco-compatibili, così come differenziare e, allargando ancora di più, contribuire a cause umanitarie, salveranno sì la coscienza del singolo, ma non salveranno mai il pianeta.
A delineare il concetto, concorre qui in maniera grandiosa Giorgio Gaber in "Mi fa male il mondo":
«Mi fa male… quando mi suonano il campanello di casa e mi chiedono di firmare per la pace nel mondo, per le foreste dell'Amazzonia, per le balene del Pacifico, e poi mi chiedono un piccolo contributo, offerta libera, soldi, tanti soldi, per le varie ricerche, per la vivisezione, per il terremoto nelle Filippine, per le suore del Nicaragua, per la difesa del canguro australiano… Devo fare tutto io!?!»
Tutto ciò fa capire come il vero problema, quello che il marketing e gran parte delle associazioni umanitarie - volenti o nolenti - non ci fa vedere, sia ben al di sopra delle potenzialità del singolo, a un livello specialmente politico, e di
mentalità politica (e il fatto che i luoghi a percentuale più alta di raccolta differenziata siano anche quelli dove domina la Lega Nord è un altro dato curioso).
L'individuo, in sostanza, fa - e deve fare - quel che può, con consapevolezza. Ma per salvare il pianeta occorre ben altro.