domenica 24 luglio 2011

Siamo alle solite

Siamo alle solite. Cambia il gesto efferato, ma i meccanismi nell'opinione pubblica restano immutati. Il carnefice, ora, non è uno "zio mostro" - che poi, si scopre, tanto mostro non è - né tantomeno un qualsivoglia dittatore ammazza-tutti: è un semplice essere di trentadue anni che ancora una volta è riuscito nella paradossale impresa di accomunare la buona novella del Gesù evangelico ad un riaggornato folle "Mein Kampf"; e di far fuori, al momento in cui scrivo, novantatré persone, il più delle quali giovani tra i tredici e i quindici anni. E di ritenere di non aver «fatto nulla di riprovevole».
Lo schock non può che essere impressionante, anche se mitigato, come ogni volta, dal solito distacco televisivo. E come ogni volta impressionanti sono le sequele di grida che invocano un immediato crucifige. Ancora, evidentemente, non si riesce a capire che la giustizia non deve uccidere persone, bensì personalità: non deve cioè essere Anders Behring Breivik a dover morire, bensì un Anders Behring Breivik. 
Si dirà - e temo sia vero - che un folle del genere non potrà mai cambiare, neppure se gli venissero concesse altre sedici vite: ma il fatto che lui non possa cambiare in meglio, non significa dover cambiare in peggio noi.

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